Quando qualcuno muore

Alessandro Fusacchia
4 min readNov 25, 2022
In memoria di Renzo Fusacchia (1947–2022)

Quando qualcuno muore, ci mettiamo a ripensare al suo quotidiano e a come lo ha vissuto con noi. A come è stato.

Ma io oggi non ho alcuna intenzione di trasformare papà in un lungo elenco di aggettivi. Ognuno di noi lo ha conosciuto e ci ha messo una vita intera per iniziare a conoscerlo. Abbiamo tutti conosciuto lo stesso Renzo, eppure ognuno di noi ha conosciuto un Renzo diverso.

Per questo voglio resistere a quello che succede quando qualcuno muore, quando la rotondità della vita, di qualsiasi vita, diventa bidimensionale. Voglio che ognuno di noi mantenga un ricordo più ricco, più articolato, e in definitiva più vivo, di quello che io oggi potrei, da solo, costruire per tutti.

Quando qualcuno muore, esce dal quotidiano, esce dalla cronaca, e diventa il pezzo di una storia più grande. Che non si misura in anni, ma in decenni, in secoli.

È di questa storia che voglio parlarvi oggi.

Della storia che ho visto e vissuto io. Una storia comune a tanti figli cresciuti tra gli anni ’80 e ’90 nella provincia italiana.

Ogni papà, come ogni mamma, ha l’ambizione di vedere i propri figli felici nella propria vita personale e realizzati nel lavoro. È il mestiere di genitore a farti desiderare di vedere i tuoi figli aggiungere un pezzetto a quello che sei stato o hai fatto tu.

Renzo, con Tonina, ha intuito che la più potente forma di emancipazione che potevano provare ad assicurare ad Anna e me era l’istruzione. Che leggere tanti libri sarebbe stato per me più importante che imparare a guidare un trattore.

Ha sentito che l’università sarebbe stato l’unico strumento a disposizione di una famiglia onesta per diventare più forti, per crescere disponendo di ciò che sarebbe servito per affrontare un mondo che stava smettendo di cambiare lentamente.

Sia nel mio caso, sia in quello di Anna, questa intuizione ha comportato per Renzo accompagnare i propri figli non solo fuori di casa, ma lontano da Rieti. Ha comportato accettare che i figli non abitassero più “a portata di casa”. Oggi ci pare abbastanza normale, ma quando questo è capitato a me da figlio, quando questo è capitato a lui da genitore, non era affatto normale.

È stato un atto di coraggio senza pari.

Dopo che per secoli i figli avevano sempre costruito sul lavoro dei padri sotto casa, in continuità, Renzo, con Tonina, ha avuto la lucidità di capire che per aggiungere un altro pezzetto sarebbe servita la discontinuità.

Non è stata di certo la mia generazione la prima ad emigrare. Chiesa Nuova è piena di storie di figli che se ne sono andati nell’800 o nel ’900. Ma fino alla mia generazione si emigrava, anche dall’altra parte del mondo, per andare a zappare un altro ettaro di terra, o per finire in una fabbrica a fare gli operai. Non si emigrava per formarsi.

Per quello che riguarda me, quel gesto, non solo per le conseguenze che ha avuto, ma per la fiducia che mi ha trasmesso in quel momento, ha contribuito più di ogni altra cosa a fare la persona che sono diventato.

In quel passaggio dalla scuola all’università ho sentito la responsabilità e l’orgoglio di qualcosa di più grande di me. Sono diventato adulto, grazie a quell’atto di coraggio.

Pochi mesi fa, a fine luglio, ho portato per due giorni a Rieti, da tutta Italia, un centinaio di persone. C’erano ventenni e settantenni. Ciascuno di loro ha fatto o sta facendo cose importanti, sta provando a trasformare un pezzo di società, a prendersi cura di una porzione di mondo. Ho portato a Rieti tanti figli e tante figlie che sono riusciti ad aggiungere un pezzetto alle loro storie familiari.

Sono stati a Pratolungo per parecchie ore, senza fretta, in campagna all’aria aperta, a conoscersi e riconoscersi, a ragionare, a scoprire questi dieci ettari di terra a qualche centinaio di metri da qui.

Erano stranieri, sconosciuti — e hanno certamente contribuito le polpette di mamma, zia Albana e zia Marisa — ma Renzo li ha accolti non da padrone di casa, li ha accolti da papà. Facendoli sentire parte di una famiglia e di una storia più grande.

Ho visto Renzo, in quei giorni, girare per i prati di Pratolungo, dentro la chiesetta di Sant’Anna di cui tra 4 anni festeggeremo i 400 anni, o sul retro della casa: l’ho spiato mentre raccontava di quel rudere che chissà cos’è davvero stato 800 anni fa, quando in questa conca passeggiava San Francesco e dappertutto era solo pieno di paludi.

Ho visto l’ultimo discendente di una storia secolare, forse millenaria. Un discendente non di sangue, ma di custodia, di cura.

E quel giorno ho visto il cerchio che si chiudeva. Lo ha visto anche lui.

Dopo aver aiutato i propri figli ad andare nel mondo, ha visto il mondo venire a Pratolungo. Ha visto quello che la sua cara terra diventerà.

Ha visto il pezzetto, quel pezzetto. Quel pezzetto che ha aggiunto lui.

Perché è solo quando qualcuno muore che davvero metti le radici.

(Scritto e letto in morte di papà, Chiesa parrocchiale di S. Barbara in Agro a Chiesa Nuova, 23 novembre 2022)

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Alessandro Fusacchia

Vice Presidente per l'Impatto Sociale di Translated. Curatore del Festival del Pensiero Contemporaneo (Piacenza) e della Pratolungo Unconference (Rieti).