Quando non vi diranno più che cosa fare

Alessandro Fusacchia
9 min readMay 10, 2017

Lo scorso 5 maggio sono intervenuto a Roma, all’Auditorium di via della Conciliazione, alla chiusura di tre giorni di role model in cui 700 ragazzi di scuole medie (dovrei scrivere secondarie di primo grado) hanno simulato i lavori delle Nazioni Unite. L’evento era organizzato da United Network. Alla sessione plenaria finale erano presenti anche i genitori. Ecco quello che ho detto.

Una volta ho partecipato anch’io ad una model delle Nazioni Unite, ma frequentavo già l’università. Vi ho visto all’opera questa mattina. E vi assicuro che, rispetto a voi, noi parlavamo inglese decisamente peggio e riuscimmo a produrre delle dichiarazioni finali di gran lunga più banali. Mi pare un bel segnale di speranza.

Voi avete 12–13 anni. E di conseguenza io ho, grosso modo, 25 anni più di voi. Mentre stamattina venivo qui all’Auditorium, mi sono messo a pensare a come erano il mondo e l’Italia 25 anni fa.

Siamo nel 1992. Siamo nel pieno di trasformazioni epocali. Fino a poco prima avevamo avuto l’Unione Sovietica, e mi ricordo ancora che il messaggio principale che arrivava in quegli anni ad un ragazzo di 14 anni come me era che i buoni avevano appena vinto sui cattivi. La Germania si era riunificata, dopo che era crollato il muro che per noi era sempre stato lì. E tutto questo passava dalla televisione, dato che non esistevano internet e nemmeno i cellulari. E in Italia? Avevano preso ad arrestare tutti. Arrestavano i politici, sembrava che tutti fossero corrotti, che non ci si potesse più fidare di nessuno. Mi ricordo solo quest’immagine: sto a casa da mia nonna, e al telegiornale danno la notizia che un giudice impegnato contro la mafia è appena stato ucciso. È rimasto vittima di un attentato mentre percorreva l’autostrada verso Palermo. Ricordo solo il pensiero che ho fatto: “ma perché chi voleva ammazzarlo non gli ha sparato, invece di far saltare per aria tutto?”. Ci ho messo parecchi anni per capire che sparargli non sarebbe bastato.

E poi stamattina ho smesso di pensare a questo mondo che andava avanti e a questa Italia che sembrava non andare da nessuna parte, e mi sono messo a pensare a come ero io, nel 1992. A come ero quando avevo più o meno la vostra età. A quello che facevo. A quello che pensavo.

Non avevo ancora gli occhiali, ma avevo già il monociglio.

Abitavo in campagna, appena fuori Rieti, a 70 chilometri da qui. I miei genitori mi portavano a scuola, e poi mi riportavano a casa. In classe cercavo di non copiare, e di non far copiare. Al pomeriggio studiavo ricurvo in camera. Mi annoiavo.

Poi sono cresciuto, ho finito la scuola media, mi sono iscritto al liceo, e al quarto anno — a 17 anni — mi sono ritrovato davanti ad una domanda gigantesca, più grande di me. «E adesso? Che faccio adesso?». Dovevo prendere una decisione. Vi assicuro che ero sempre andato bene a scuola e avevo imparato tutto quello che c’era da imparare. Ma ero arrivato a 17 anni e nessuno mi aveva insegnato la cosa più importante: scegliere. Mi avevano spinto a conoscere tante cose diverse, ma non mi avevano mai detto che la cosa più complicata da conoscere — per ciascuno di noi — siamo noi stessi.

Alcuni, già alla vostra età, hanno un’idea chiara su cosa fare da grandi. Ma normalmente sono una minoranza. Il punto è che tutti arriverete a 17 anni, a quell’età in cui non dovrete più — come avete fatto oggi — simulare qualcosa, ma provare a diventare qualcuno. E vi ritroverete con la domanda della vita: «e adesso che faccio?». Vi chiederete: «Vado all’università? E se ci vado, faccio l’università che mi piace o l’università che mi dà lavoro?». A 17 anni io mi sono ritrovato davanti ad un specchio con questa domanda, e alla fine ho fatto l’università che è capitata. Ci ho messo parecchi anni a capire che l’università che sicuramente ti dà un lavoro non esiste. Anche perché molti dei mestieri più interessanti che un giorno potrai fare non esistono ancora quando ti iscrivi all’università. L’università che sicuramente ti dà lavoro non esisteva quando 17 anni li avevo io, figuriamoci oggi. Quindi la risposta sembrerebbe facile: fate l’università che vi piace. Il problema è che questa risposta si porta dietro un’altra domanda, ancora più complicata della prima: voi lo sapete cosa vi piace? Ancora una volta, vedo che alcuni di voi sono pronti a rispondere «sì». Bene. Ma siete comunque una sparuta minoranza. E con tutti gli altri? Come facciamo con tutti gli altri?

Per scoprire che cosa vi piace, dovete imparare a conoscervi, che è la cosa più difficile da fare per ciascuno di noi. La buona notizia è che si tratta anche della cosa più bella e importante a cui possiate dedicarvi. Non standovene davanti allo specchio, però. E allora come?

Provo a darvi 5 consigli. Ma fate attenzione: perché sono esattamente l’opposto di quelli che hanno dato a me e ai miei compagni di classe quando avevamo la vostra età.

1Quando andavo alle medie io, ci dicevano: non far copiare, usa la tua testa, e cerca di diventare il primo della classe. Ma nel mondo di oggi conta moltissimo saper lavorare insieme. Le cose più importanti e belle che farete, le farete solo insieme ad altri. Prima vi abituate a questo, prima diventerete veramente bravi. Nella vostra vita farete grandi cose solo se nessuno dei vostri compagni farà cose piccole. Quindi il primo consiglio è: aiutateli! Imparate a condividere. Evitate che la classe sia divisa in chi fa i compiti e in chi copia. Pensate, imparate, e fate ogni giorno qualcosa insieme ai vostri compagni. Usate la vostra testa, ma non rinunciate ad usare anche la loro. Usate le vostre teste insieme. Fate in modo di diventare i primi della classe, ma in una classe dove non ci sono i secondi.

2 Quando andavo alle medie io, passavo i pomeriggi a ripetere. Ripetevo per essere sicuro di sapere bene cosa rispondere, nel caso in cui mi avessero interrogato. Ripetere mi aiutava a sentirmi a mio agio. Ma le cose più importanti su noi stessi le impariamo quando non ci sentiamo a nostro agio. Non vi sto dicendo di non studiare o di arrivare impreparati in classe. Vi sto dicendo che provare a misurarvi con tante cose impreviste — con cose che non sapete prima come funzioneranno — è qualcosa di particolarmente utile. Quindi il secondo consiglio che vi do è: studiate, ma soprattutto studiatevi. Non spaventatevi mai. Osservate cosa vi succede in quella situazione inattesa e chiedetevi sempre «perché ho reagito così?».

Fatelo prima di tutto quando siete con i vostri compagni. Anzi, vi propongo un piccolo gioco da fare lunedì a scuola. Durante la ricreazione, parlate con un altro compagno — della vostra o di un’altra classe — con cui non parlate mai. Se vi sta poco simpatico, è pure meglio. Provate a parlarci. Provate a scoprire il più possibile sul suo conto. Scommettete sul fatto che siete in grado di trovare una cosa interessante anche in questo compagno così poco simpatico.

3 Quando andavo alle medie io, ero molto veloce a seguire quello che mi dicevano di fare. Ero velocissimo. Ma il punto è che aspettavo sempre che qualcuno mi dicesse cosa fare. E inevitabilmente finivo per fare sempre più o meno le stesse cose. Ecco, il terzo consiglio che vorrei darvi è questo: non aspettate sempre che qualcuno vi dica cosa fare. Perché arriverà un giorno in cui quel qualcuno smetterà di dirvelo, e quel giorno vi sentirete persi. Piuttosto, fate esperienze diverse. Sapendo che quando farete quello che nessuno vi ha detto di fare, è molto probabile che sbaglierete. Cosa intendo per “sbaglierete”? Che non riuscirete a fare bene come avreste voluto, che combinerete qualche pastrocchio. Quasi certamente, che non vi sentirete all’altezza. Che vi sentirete inadeguati. Va benissimo! Ripeto: va-be-nis-si-mo! Sbagliate e fatelo senza paura. Dovete avere paura solo di fare due volte lo stesso errore. Perché allora vuol dire che vi siete arresi. Che avete cominciato ad accontentarvi. A dirvi che non serve fare bene, la prossima volta, la cosa che questa volta avete fatto male.

Tra l’altro, sbagliare vi aiuta anche a diventare degli esempi per qualcun altro della vostra classe. Sapete come si diventa un esempio? Facendo le cose fatte bene? Sì, qualche volta sì. Ma soprattutto assumendo il comportamento giusto quando le cose vanno male. Mostrando come reagiamo. Si diventa un esempio per gli altri quando gli altri vedono come reagiamo di fronte a qualcosa che ci mette in difficoltà.

4 Ho fatto le scuole medie a Rieti. Vivevo in campagna. La mattina mi portavano da casa a scuola, e quando finiva mi riportavano a casa. Quando andavo alle medie io, salvo rare eccezioni, le mie giornate erano tra una stanza chiusa a scuola e una stanza chiusa a casa. Voi avete un’occasione in più: di portare quello che ogni giorno imparate a scuola fuori dalla scuola stessa. Di portarlo anzitutto nel vostro quartiere. Sapete qual è la differenza tra centro e periferia? Ha poco a che vedere con la geografia. Le periferie — i luoghi tristi dove non succede mai niente — sono quelli dove le persone sono sole. Molte cose interessanti oggi succedono lontano da dove sono successe sempre. Dipende dalle persone. Nei prossimi anni, sempre più dipenderà da ciascuno di voi se il luogo dove vivrete sarà centro o periferia. Avete l’età in cui si scopre che non funziona solamente che tutti si prendono cura di noi, ma che anche noi possiamo prenderci cura di qualcuno. Il quarto consiglio è pertanto questo: se davvero volete conoscervi — se volete crescere e non solo accumulare anni — prendetevi cura delle cose intorno a voi. Sceglietevi qualcuno di cui prendervi tenacemente cura.

5 Infine, quando andavo alle medie io, quando avevo la vostra età, non ero curioso. Per fortuna, col tempo lo sono diventato. Voi avete la fortuna di esserlo già, e lo dimostra il fatto che siete qui oggi. Curiosità vuol dire desiderio di conoscere ciò che ancora non conosciamo. Ma come facciamo ad essere curiosi se ormai non possiamo più fidarci di nessuno, se stiamo come stavamo 25 anni fa, quando tutti parevano corrotti e tutto pareva crollare? Non so se in effetti stiamo di nuovo così. Ma so che 25 anni fa è successa anche un’altra cosa strepitosa: i governi europei hanno inventato la cittadinanza europea.

Io sono nato nel 1978. Sono nato cittadino italiano e poi — nel 1993 — sono diventato cittadino europeo. Voi invece siete nati già cittadini europei. Che vuol dire? Che avete diritto ad andare liberamente in Francia, in Spagna, in Danimarca, in Polonia — a studiare, e tra un po’ di anni a lavorare. Ma mi piace dirvela diversamente: vuol dire che avete diritto ad essere curiosi… che potrete abitare altre città, diventare parte ogni volta delle diverse comunità che troverete nei luoghi dove finirete a vivere. Che potrete cercarvi il vostro posto al mondo in un’Europa senza barriere interne. Vuol dire che avete una casa più grande di quella che hanno avuto i vostri genitori che sono seduti lassù, nel palco alle vostre spalle. Una casa che magari ha mille problemi, ma che offre anche tante opportunità. È una casa dove siamo riusciti a preservare la pace per decenni, e dove oggi dobbiamo fare lo sforzo — tutti insieme — di capire come renderla un posto più vivace. Un posto dove succedono cose interessanti, anzitutto per i giovani. Fate attenzione: questo posto, oggi, è un po’ in pericolo e dobbiamo difenderlo. Perché se non lo difendiamo non riuscirete a fare niente di tutto quello che stamattina ho sentito dirvi —da questo palco dove adesso mi trovo io — che vorrete fare un giorno: promuovere i diritti umani, tutelare il patrimonio mondiale, riportare la pace dove manca, assicurare che lo sviluppo sia sostenibile in ogni angolo della Terra. Da soli, come Italia o Francia o Belgio o Svezia, questo non lo possiamo fare. Ci serve l’Europa unita. Ci serve almeno per provarci. Ma come la difendiamo? Cosa può fare ciascuno di voi?

Quando andavo alle medie io, quando avevo la vostra età, mi dicevano di stare attento a fidarmi. E che era meglio — nel dubbio — non fidarsi. Voi fate esattamente il contrario: nel dubbio, fidatevi. Il mio ultimo consiglio è: fidatevi di tutti. Con una sola eccezione: non fidatevi di chi vi dice che per proteggervi bisogna costruire un muro alto, talmente alto da non riuscire più a vedere che cosa c’è dall’altra parta, e che noi dobbiamo rinchiuderci tutti al di qua, da questa parte. Di questi signori non vi fidate. Perché quel muro non serve a proteggervi. Serve solo ad impedirvi di scoprire qualcosa che non conoscete ancora: voi stessi.

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Alessandro Fusacchia

Vice Presidente per l'Impatto Sociale di Translated. Curatore del Festival del Pensiero Contemporaneo (Piacenza) e della Pratolungo Unconference (Rieti).