Principio di un nuovo alfabeto

Alessandro Fusacchia
6 min readMar 9, 2020
particolare di una tela di Hyeronimus Bosch (1450–1516)

A L L A R M E | Siamo abituati ad associare alla parola allarme uno stato di incertezza e confusione a cui fanno seguito imprevisti, comportamenti egoisti e da si-salvi-chi-può. Ma in realtà la parola allarme deriva dalla locuzione militare “all’arme”, che unita a gridare (gridare all’arme) veniva usata per chiamare a raccolta, a difesa contro una minaccia nemica. Raccogliersi, ritrovarsi, prepararsi, velocemente pianificare, muoversi insieme come unica possibilità di affrontare qualcosa di pericoloso e ignoto. Noi oggi siamo stati attaccati, ci sentiamo deboli, stiamo scoprendo tutta la nostra vulnerabilità. Ma mentre resistiamo, ci difendiamo, trasformiamo le nostre case in trincee, capiamo che c’è un ignoto a cui dobbiamo prepararci che non è il coronavirus, ma ciò che troveremo quando il coronavirus sarà passato, quando torneremo ad uscire di casa, a frequentarci, ad abitare là fuori. Per molti aspetti può essere la nostra occasione. A maggior ragione se consideriamo che là fuori, per la maggior parte di noi, era già diventato un luogo piuttosto inospitale. Basterà qualche settimana? Occorreranno mesi? In qualsiasi caso, da oggi abbiamo pochissimo tempo per progettare la nostra nuova e pressoché imminente convivenza.

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C U R A | Volevo scrivere casa, è la parola che inizia con la ‘c’ che più stiamo sentendo in questi ultimi giorni: “io resto a casa”, come forma di cautela personale e di rispetto verso gli altri. Ma ho scelto cura, perché restare a casa non basta. Dobbiamo stare separati fisicamente, per ridurre il rischio di contagio. Ma dobbiamo reinventare e aumentare la nostra capacità di stare insieme. Adesso, non a crisi superata; o subiremo, come società, danni permanenti. Cura, anzitutto, di chi sta in casa con noi. Ogni famiglia sarà sottoposta ad uno stress non necessariamente sperimentato prima. Quelle serene, quelle in crisi, quelle che non si sono ancora rese conto di esserci molto vicine. Tutte, senza distinzione di colore, sesso o religione. Forse, con un po’ di distinzione di abitazione. Perché non è la stessa cosa rinchiudersi in 150 metri quadri in un appartamento ben soleggiato e tanti libri, musica e orchidee oppure nella metà dello spazio, con il doppio degli inquilini, senza nient’altro che non sia mai servito per mangiare, dormire o defecare. E poi certamente questo stress colpirà, prima di altre, le famiglie che nell’immediato si ritroveranno a non sapere più come pagare l’affitto e arrivare a fine mese. Che non dovranno solo combattere con la paura del coronavirus, ma con le sue conseguenze sul proprio lavoro e sulla possibilità di avere delle entrate — non in astratto, ma a marzo, poi ad aprile, poi chissà — e per le quali da domattina ci sgoleremo fino a quando il Governo non ne avrà fatto la sua priorità. Ma varrà ugualmente anche per chi riuscirà con meno fatica a gestire l’impatto economico della gigantesca crisi socio-sanitaria in cui siamo immersi fino al collo. Stiamo pertanto tutti attenti a chi ci sta vicino. La loro routine è stata sconvolta, probabilmente più della nostra. E se in questa fase l’isolamento diventa assenza di compagnia è la fine. C’è un virus potentissimo in giro, l’unico che si diffonda per assenza di contatto. I virologi lo hanno rinominato SOLITUD-2020.

D I D A T T I C A | A distanza. Non sta funzionando. Funziona. Ma lascia perdere. Torniamo ai gessetti. Aspetta, no. Capiamo cosa non funziona ancora. Sto pensando ai tanti insegnanti di buona volontà che avevano capito che il digitale fosse solo uno strumento e che si potesse replicare la meccanica di una lezione frontale fatta in classe semplicemente mettendosi imbellettati davanti ad uno schermo. Sto pensando agli altri — a tutti quelli che alla seconda lezione si rendono conto che non è così, che è tutta un’altra cosa e allora vanno in stato di agitazione. Adesso penso agli altri che invece potrebbero fare bene, ma quale piattaforma, quale gestione di una classe, quale classe. Quale connessione? Ma con gli alunni, devo pure risponderti? In più parti del Paese, quale connessione continua a voler dire, prima di ogni altra cosa, con quale rete. Per settimane, decine di migliaia di classi ognuna diversa a modo suo. L’emergenza coronavirus come la più grande occasione per un tagliando alla nostra scuola. In queste settimane possiamo scegliere se arrenderci, o allenarci. Se farci sconti, o rilanciare. Ogni docente. Ogni studente. La parte più difficile: ogni genitore. Se ripensare un’intera società, e partecipare alla sua ri-costruzione, non sarà più il passatempo di pochi intellettuali ma il soddisfacimento di un bisogno primario diffuso (come bere, urinare, dormire), allora sulla scuola prendiamo appunti, scambiamoceli, facciamone il primo punto della ricostruzione post-bellica che ci aspetta quando avremo sconfitto il coronavirus. Perché sarà impossibile tornare semplicemente in classe.

E M P A T I A | Non passa attraverso whatsapp, o per lo meno la mia personale esperienza mi dice che è abbastanza raro. Ma può passare al telefono più spesso di quanto pensiamo. I più giovani non avranno capito il senso di questa frase, non vedranno la differenza tra usare whatsapp e usare il telefono. Ma io me lo ricordo il tempo in cui ci chiamavamo. Adesso ci dicono che non possiamo vederci. Possiamo però telefonarci. Semplificando brutalmente, uno potrebbe dire che negli ultimi anni i nostri rapporti sociali sono finiti classificati in due grandi tipologie. Da una parte quelli con cui ci sentiamo via whatsapp. Dall’altra quelli con cui ci sentiamo non solo via whatsapp. La prima è la categoria più numerosa, e non mi è servita l’emergenza coronavirus per sapere che lì dentro ci man-tengo anche tante persone care come amici, ex colleghi, familiari, ecc. — dove ecc. ha un significato enorme — a cui voglio bene anche solo per averci fatto un pezzetto di vita assieme, magari anni fa. Ma fino all’avvento del coronavirus, fino alle raccomandazioni degli ultimi decreti — quello di sabato sera a singhiozzo e poi quello di stasera con le notizie sul resto dell’Italia (e siamo ancora solo a lunedì )— ho sempre pensato che ci sarebbe stato tempo; che prima o poi li avrei cercati, non per un qualche aggiornamento burocratico sulla mia o sulla loro vita, ma per qualcosa di più profondo. Per riconnetterci, non sui ricordi, ma su quello che ancora non siamo stati, su tutto quello che non siamo ancora riusciti a far succedere. Signore e signori, ho una notizia da darvi, e facciamola girare perché né il Governo né gli organi di stampa la stanno dando: queste giornate sono ottime per mandare un whatsapp di meno e per fare una telefonata in più. Io non telefono mai. Non telefonavo mai. Poi me ne sono capitate un paio ieri pomeriggio, e da quelle sono ripartito. Sentire. Sarà un caso se la stessa parola possiamo usarla per dire sia che stiamo ascoltando qualcuno sia che stiamo provando qualcosa? Telefonare non è ancora un rivedersi, ma può aiutarci enormemente — in questa stagione inverno-inverno — a non perderci. Rompiamo la classificazione, la separazione netta tra i due container. Creiamo una terza tipologia, una sorta di limbo, e mettiamoci quelli che non abbiamo ancora re-incontrato di persona ma che stiamo chiamando al telefono. Coltiviamo con loro, e attraverso loro, un desiderio nuovo: quello di sentire ardentemente la voce. Non so quanto durerà (ma so che non durerà poco) e quanto si diffonderà il contagio, ma so che di fatto questa crisi ci metterà tutti un po’ in quarantena. Non diamolo per scontato. Al contrario, prepariamolo da oggi il giorno in cui torneremo ad incontrarci di persona. A toccarci. Poche settimane sono più che sufficienti per logorare il nostro tessuto sociale. Non dobbiamo in alcun modo permetterlo. Al telefono abbiamo anche un vantaggio. Possiamo sempre chiudere gli occhi e immaginare. Visualizzare come sarà quando ci ritroveremo. Anticipare una buona dose della bellezza che ci aspetta.

F R A G I L I T À | Queste settimane, e questi ultimi giorni in particolare, stanno facendo emergere le fragilità. Vale a dire, le contraddizioni della società che abbiamo costruito. Stanno facendo venire fuori le situazioni precarie, intese come quelle che erano appena in equilibrio e che al primo mutamento delle condizioni non sono in grado di resistere ed essere resilienti. Su queste contraddizioni dobbiamo lavorare per ricostruire una società più stabile, più capace di attraversare il tempo, che sarà sempre di più un tempo di crisi latente. Questa settimana ho voglia di ascoltare, di entrare in connessione con tante persone che conosco ma non sento da anni, così come con altre che non conosco ancora. Ho voglia di capire, per interpolazione, dove sta andando il mondo. Ho voglia di capire cosa davvero posso fare io, nel chiuso di una stanza, davanti a una tastiera. E insieme ad altri, là fuori (non fisicamente, ma trovando comunque un modo per mantenere un presidio ed essere presenti), per progettare questo nuovo mondo che ci aspetta. Per anticiparlo. Per creare connessioni che generano risorse utili a superare l’emergenza. Per produrre storie intrise di cultura, per fare sintesi di istanze. Per costruire nuove forme di rappresentanza.

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Alessandro Fusacchia

Vice Presidente per l'Impatto Sociale di Translated. Curatore del Festival del Pensiero Contemporaneo (Piacenza) e della Pratolungo Unconference (Rieti).