La cesta di frutta

PROLOGO
Il 9 settembre il Governo Conte bis si è presentato alla Camera dei deputati per il voto di fiducia. Con i colleghi Riccardo Magi e Bruno Tabacci abbiamo votato a favore, dichiarando il nostro «appoggio esterno». Il giorno dopo, al Senato, Emma Bonino ha votato contro. Una settimana prima la Direzione di +Europa aveva deciso che il partito si sarebbe posto all’opposizione.
Su una questione centrale per la vita del Paese, delle istituzioni, dei partiti, +Europa si è spaccata in due. Perché qui — a differenza di chi ha cercato di accreditare un’altra versione — non è questione di questo o quel deputato che rispetto agli altri decide legittimamente di prendere una posizione diversa. Qui c’è la dirigenza di un partito da una parte, e tutto il gruppo parlamentare alla Camera dall’altra.
Ho scritto le righe che seguono perché credo che serva stare attenti alle scorciatoie. A farla semplice.
Noi che alla fine abbiamo votato la fiducia — parlo per me, ma credo valga anche per Riccardo Magi –, per settimane abbiamo convissuto coi dubbi e abbiamo provato a tenere insieme i pezzi, nonostante non guidassimo certo noi il partito e non disponessimo neppure del diritto di voto in Direzione. Abbiamo usato tutta la nostra coscienza. Ma come dice un proverbio inglese, “devi essere in due per ballare il tango”.
Dal giorno dopo il voto di fiducia, i soliti ignoti si sono scatenati online. Con modi settari, quasi grillini. In tanti sono diventati probiviri. Hanno messo a fuoco contro chi serviva scagliarsi per ritrovare la purezza. Per riuscire finalmente ad avviare +Europa verso le magnifiche sorti e progressive.
Per tre settimane hanno continuato ad usare i polpastrelli compulsivamente, ed io ho deciso, per tre settimane, di starmene zitto. Per capire cosa si sentiva, se uno provava ad isolare il rumore di fondo.
Fino alla prima Direzione convocata dopo il voto di fiducia, che si è tenuta il 30 settembre. In quella sede ho detto ciò che avevo da dire. Ho ricostruito la mia versione dei fatti e ho chiesto al Segretario un’assunzione di responsabilità.
Silenzio.
Ho considerato che questo fosse solo l’ultimo gesto — l’ultimo gesto mancato, dovrei dire — che rendeva tutto irrecuperabile.
Ho pertanto deciso di non rinnovare la mia iscrizione al partito e ho comunicato che non parteciperò oltre alle riunioni degli organi e alla vita politica di +Europa.
Gli 11 capitoli che seguono raccontano solamente la mia versione dei fatti.
In particolare raccontano le due settimane comprese tra la Direzione di +Europa del 26 agosto e il voto di fiducia alla Camera, il 9 settembre. Rendicontano avvenimenti e impressioni.
Parlano poco del perché io abbia deciso di votare la fiducia. Su questo ci sono post sui social, interventi nelle varie Direzioni, e soprattutto c’è la mia dichiarazione di voto in Aula. Parlano, invece, di come siamo finiti così; di come non sia stato fatto granché per evitare ciò che è successo.
Mi sta più a cuore questo, oggi. Perché — al solito — sul merito ci si può scontrare, ma ad un certo punto si trova una quadra. Come sa chiunque abbia esercitato almeno una volta una qualche responsabilità pubblica in questa èra della complessità.
Mentre sul metodo non è possibile una mediazione. È sul metodo la frattura profonda — la distanza antropologica — tra la politica della Prima Repubblica e di tutti i suoi moderni avventori, dichiarati o in azione sotto mentite spoglie; e l’altra politica che ancora non è emersa a sufficienza, e il cui perseguimento è la ragione più profonda che ha spinto me, e un po’ di altri insieme a me, ad abbandonare due anni e mezzo fa tutto quello che avevamo costruito nella vita.
Per lanciarci, senza paracadute.
1.
Sono due questioni strettamente collegate, ma diverse.
La prima è la valutazione di merito rispetto al nuovo Governo. Al fatto di sostenerlo o meno.
La seconda è la decisione formale di +Europa, adottata al termine della direzione del 2 settembre; a cui segue il mancato rispetto della decisione stessa da parte dei 3 deputati di +Europa; alla ricostruzione di come a quella decisione siamo arrivati. La seconda questione è quindi di metodo. Di processo. Di fiducia. Non solo quella che abbiamo votato alla Camera e non votato al Senato.
Queste memorie partono da una premessa. C’erano ragioni legittime sia per votare la fiducia sia per non votarla. Quelle che mi hanno portato a votarla le ho espresse sinteticamente in 2 minuti e 33 secondi al momento di dichiarare il voto alla Camera a nome della nostra componente di +Europa, il 9 settembre sera: anzitutto l’assunzione di responsabilità di chi dice al Presidente della Repubblica di non voler andare ad elezioni anticipate quando qualcuno al 40% chiede i pieni poteri e non pretende poi però che a formare il Governo sia necessariamente qualcun altro; o i chiari segnali arrivati dal nuovo Governo rispetto al rapporto con l’Europa. Potrei continuare, ma davvero non è per questo che ho deciso di mettermi a scrivere.
Chi come me — o Riccardo Magi — ha votato la fiducia, lo ha fatto dopo tanti giorni di approfondimenti, dubbi, pensieri e ripensamenti. Lo ha fatto sapendo che fuori dalla Camera il mondo è a colori, ma dentro la Camera, in circostanze come l’insediamento di un nuovo Governo, tutto diventa bianco o nero. Diventa sì o no. Fai appello alla coscienza, che ti mette in guardia con un cauto “no, però…”, e un’ora dopo è già al “sì, però…” e poi di nuovo no, e di nuovo sì, fino a quando alla fine decidi. Perché devi decidere. Perché tante riflessioni le devi condensare in un gesto solo: pollice alto o pollice verso. Questo è quello che sei chiamato a fare se fai il parlamentare. Poi certo potrai dire che quel sì non è un assegno in bianco, ma una apertura di credito, una prima fiducia; che è solo una disponibilità a valutare con buona predisposizione ciò che il Governo metterà sul tavolo.
E tuttavia, non è di questo che vorrei scrivere qui. Mi interessa di più, a beneficio di chi in questi mesi ci ha seguito da vicino e chiede di capire, ricostruire cosa sia successo in quei giorni. Giorni in cui ho letto molti giudizi sommari, che lascio volentieri a chi li ha espressi, prendendo atto che anche +Europa aveva i suoi leoncini da tastiera; giorni in cui ho letto, e questi invece mi interessano eccome, molti commenti formulati per insufficiente cognizione di causa.
Queste brevi memorie servono a dare a chiunque si sia interessato alla vicenda più elementi di quelli di cui ha disposto fino ad oggi, perché tutti coloro che vogliono maturare un giudizio consapevole non siano in balía dell’ultimo messaggio lasciato su facebook o in una chat di whatsapp.
Riporterò sia fatti sia opinioni. Sarà facile per chiunque capire quando si tratta dei primi, quando delle seconde. Alcune cose che riprenderò sono note, o comunque già pubbliche, e proverò solo a metterle in fila così come le ho vissute io. Altre le rivelerò per la prima volta in queste memorie della crisi.
2.
Nelle due settimane precedenti il voto di fiducia alla Camera, lunedì 9 settembre, si tengono 3 riunioni della direzione di +Europa. La prima il 26 agosto. La seconda il venerdì della stessa settimana, 30 agosto. La terza, quella decisiva, il lunedì 2 settembre.
Gli interventi di queste riunioni sono pubblici, chiunque fosse interessato ad una mini-maratona-Mentana può andare sul sito di +Europa e riascoltarseli tutti, dal primo all’ultimo. Alcuni ascolteranno gli interventi dei vari membri della direzione con il senno del poi. In molti casi sarà facile vedere che certe decisioni erano già prese. In altri, questo sarà meno possibile.
Ritengo che una parte significativa dello squilibrio — e quindi della spaccatura — che si è creato sia legata alla asimmetria di maturazione della presa di decisione dei vari attori coinvolti: da un lato i “convinti a prescindere” (che fossero pro- o contro- il nuovo Governo); dall’altro chi aveva meno certezze ed era più interessato a maturare un giudizio che non ad alimentare questa o quella tifoseria.
Fino al giovedì 29 agosto, in cui incontriamo il presidente del Consiglio incaricato, due cose intendo riportare.
La prima, puntuale, riguarda la decisione presa il 17 agosto, al termine della primissima direzione di +Europa tenutasi dopo il proclama balneare di Matteo Salvini, con la quale si “dà mandato al Segretario, con il coinvolgimento degli eletti di +Europa, di seguire la crisi”. Sembrerebbe una cosa normale. Una formula ultronea. Di buon senso. Non fosse altro che stiamo parlando di una crisi parlamentare. E invece no. Perché sin dai primissimi giorni dell’èra dopo Papeete — mentre cominciano a partire giudizi pubblici contro di noi da parte di esponenti della Direzione e della Segreteria di +Europa per il presunto mancato nostro allineamento alla posizione del Segretario — con Magi e Tabacci abbiamo già dovuto scrivere alla Direzione una lettera sgradevole. È il 12 agosto. “Ci teniamo ad informare che non abbiamo mai ricevuto alcuna richiesta di confronto da parte del Segretario rispetto alla crisi in corso. Non ci stupisce: è la modalità di lavoro che il Segretario ha deciso da tempo di portare avanti. Certo sorprende che non ne abbia avvertito la necessità neppure di fronte ad una questione che attiene primariamente al Parlamento e al nostro ruolo di deputati.Ne abbiamo preso atto.” Il 17 agosto otteniamo il minimo sindacale.
La seconda, che registro sempre dai primi giorni del Papeete, è una certa corsa da parte del Segretario e dell’ala forzaeuropeista di +Europa a dire che i 5stelle sono peggio della Lega, con loro nella vita mai, un governo insieme manco morti, con Conte peggio mi sento. Dichiarazioni pubbliche e post sui social: nella nostra piccola bolla, probabilmente. Ma diciamo che se c’era un ponte che stava ancora malamente in piedi, il lavoro scientifico è quello di minarlo con la nitroglicerina, o comunque di abbatterlo a suon di pietre, prima che qualcuno si azzardi ad avvicinarsi e a provare ad attraversarlo.
Avevo capito che non volevamo andare ad elezioni, e questo lo dicono tutti apertamente, anche coloro che vogliono stare lontani dal possibile nuovo governo. Così noi ci concentriamo a far crescere +Europa.
Eppure a me risulta che il Governo nuovo che ti permette di non sparire dalla scena — perché in caso di elezioni anticipate +Europa non si sarebbe neppure potuta presentare — lo puoi fare, visti i numeri, solo se ci stanno anche i grillini.
Questo ragionamento è quello che da subito, e forse più di tutti, mi infastidisce: non vogliamo le elezioni, ma vogliamo che le mani coi grillini se le sporchi qualcun altro. Nel frattempo noi speculeremo da fuori che il nuovo esecutivo non farà bene, così potremo dire agli italiani: ve lo avevamo detto.
3.
Giovedì mattina 29 agosto prendo l’auto e parto per Firenze. Sto in pantaloncini e t-shirt. Devo finire il trasloco. In auto ho l’auricolare incastonato nel lobo dell’orecchio, approfitto di questi 200km da solo per fare qualche telefonata. Parlo, riattacco, passo alla chiamata successiva. Alle 11.30 mi sto prendendo una pausa, ho la radio accesa, squilla il telefono.
È Palazzo Chigi. Alessandro Goracci, il capo di Gabinetto del Presidente incaricato Giuseppe Conte. Non ho idea di chi sia. È la prima volta che ci parliamo. Mi dice che stanno organizzando le consultazioni e che il presidente vorrebbe vedere Emma Bonino e me. Ci dà appuntamento per il primo pomeriggio, 15.40 alla Camera dei deputati.
Ha già sentito Emma Bonino, che però non riesce ad esserci e che si farà sostituire dal Segretario Della Vedova. Chiedo a Goracci quale sia il formato per l’incontro e mi dice che la delegazione la decidiamo noi. Le fibrillazioni dentro +Europa sono già alte, difficile che oggi qualcuno possa parlare a nome di qualcun altro, vale la pena andare tutti e 4. È quasi mezzogiorno quando parcheggio, scendo, guardo la finestra dell’appartamento fiorentino che sto per lasciare, non salgo neppure in casa. Prenoto una car2go, vado in stazione, monto sul primo treno che mi riporta a Roma.
Facciamo l’incontro col Presidente incaricato, e inevitabilmente ne ricaviamo giudizi diversi. Nella Direzione che terremo il giorno dopo il Segretario darà il suo resoconto di com’è andata; Tabacci farà una lettura diametralmente opposta, Magi ed io aggiungeremo alcuni elementi e considerazioni a nostro avviso non secondarie.
Quando usciamo dall’incontro con Conte e Goracci, valuto positivamente che almeno si sia aperta un’interlocuzione, si possa ragionare, si possa provare a mettere delle questioni sul tavolo. Prima di mettere fine all’incontro, Conte ci dice: “qui sto”. Non deve sfuggirgli che non siamo entrati nella stanza con una posizione granitica, né tanto meno univoca. Così lascia decidere a noi se e come continuare l’interlocuzione.
Usciamo e in meno di un’ora mi irrito nuovamente: decidiamo di comune accordo di non parlare alla stampa, perdendo un’occasione di interagire coi giornalisti, ma preferendo non mostrare plasticamente le differenze di vedute che ci sono tra di noi. Non farebbe bene a nessuno, e prima di tutto non farebbe bene a +Europa. Continuavo a pensare che non avevamo fretta di posizionarci, che non c’erano tutti gli elementi per farlo, che la decisione era talmente delicata — e avrebbe richiesto ponderazioni, nuovi incontri col Presidente del Consiglio e con le forze di maggioranza — che avremmo dovuto resistere tutti ad ulteriori uscite pubbliche di +Europa. La comunicazione serve per alzare la posta, lo capisco. Ma prima devi decidere qual è, questa posta.
Dieci minuti dopo Della Vedova è a Sky Tg24. Mi lamento, lo segnalo a lui e lo scrivo anche ad Emma, tra un sms e l’altro in cui ci stiamo nel frattempo chiedendo a vicenda se abbiamo deciso come votare.
Della Vedova mi chiama su di giri per protestare. Per ricordarmi che è lui il Segretario, che ha vinto un Congresso, e che fa tutti i passaggi televisivi che ritiene. Corretto. Gli chiedo tuttavia: “quindi per te è normale che questo avvenga dieci minuti dopo che avevamo deciso di non parlare alla stampa?”.
“Ma mica ho parlato dell’incontro!”, mi risponde.
Ho pensato ai pochi esemplari rimasti di rinoceronte di Giava, alla loro prossima estinzione. Avrà parlato di questo.
4.
In quelle ore successive all’incontro con il Presidente incaricato, con Magi abbiamo insistito perché la Direzione convocata per il giorno dopo non decidesse. Troppa fretta di mettere un punto.
Non a caso finisce con ore di discussione in cui tutti ripetono pressoché le stesse cose già dette il lunedì prima. Quel venerdì mi rendo conto che anche se la Direzione non ha ancora deciso, quasi tutti quelli che la compongono hanno in realtà maturato un giudizio insindacabile.
Emma interviene da remoto, esprime perplessità sul nuovo Governo ma ribadisce di non aver deciso e alla fine si convince che forse qualche giorno in più potrebbe fare bene a tutti. Io la ascolto e per un attimo chiudo gli occhi. Vedo una tazza. Sta rotolando sul tavolo, ma non è ancora arrivata al bordo, non ha fatto il salto. Riapro gli occhi e penso che siamo ancora in tempo per evitare i cocci, ma serve che qualcuno allunghi una mano. Siamo ancora appena in tempo.
Il Segretario legge alla Direzione la sua proposta di decisione, è venerdì sera e siamo riconvocati per il lunedì. C’è un passaggio che dice che prenderemo una “decisione definitiva sulla collocazione di +Europa, rispetto al governo Conte bis”. Ci fanno una piccola concessione. Quando dovevano invece attenersi a quello che avevamo deciso all’inizio della settimana, alla direzione di lunedì 26 agosto, vale a dire che +Europa avrebbe seguito con attenzione l’evoluzione della crisi e valutato una posizione definitiva quando sarebbero stati noti “programmi, obiettivi e composizione del nuovo esecutivo”.
Quando esco sono stremato. Il giorno prima, finito l’incontro con Conte, sono rimontato in treno e tornato a Firenze, ho stipato l’auto come un tacchino da batteria, sono rientrato a Rieti, poi ancora una volta a Roma per la riunione della Direzione.
Adesso è appena passata mezzanotte e sono in macchina, con la radio spenta, il telefono buttato sul sedile di fianco. Corro lungo una Salaria deserta e buia, tra le colline della Sabina, verso la casa in campagna dove ho vissuto fino alla maturità.
5.
Chiudendo la direzione di venerdì, Della Vedova ha dato appuntamento a tutti per il lunedì pomeriggio. Mi chiedo cosa possa succedere nel corso del fine settimana. Cosa possa succedere a maggior ragione se non lo provochiamo noi. Lunedì ci ritroveremo con l’ennesima lunga discussione, ognuno con le sue posizioni note: chi vuole sostenere questo Governo a qualsiasi costo, chi non lo vuole sostenere nemmeno sotto tortura, chi chiede, prima di decidere, di avere più informazioni e che maturi il processo di definizione del nuovo Governo.
Mentre scendo le scale e mi riaffaccio su piazza Santa Caterina da Siena, mi torna in mente una battuta scambiata con Goracci all’uscita dall’incontro con Conte. Una battuta su Emma. Capivano ovviamente le ragioni, ma erano genuinamente dispiaciuti che non avesse potuto partecipare. Con Goracci ci eravamo detti che non sarebbe stata una cattiva idea facilitare una telefonata tra il Presidente e lei.
Il sabato mattina ci scriviamo, Goracci mi dice che ne ha parlato col Presidente e che la chiameranno. La domenica mattina Goracci mi cerca di nuovo, passiamo venti minuti al telefono, vuole giustamente preparare la chiamata e capire quali temi sia più utile approfondire. Gli parlo di immigrazione e di conti pubblici, e più in generale della necessità di una non equivoca svolta europeista. Prima di riattaccare mi dice che il Presidente potrebbe fare la telefonata in giornata, o l’indomani. Lo informo che proprio per l’indomani pomeriggio abbiamo fissato una nuova Direzione di +Europa.
Sono a Rieti e la sera andiamo a mangiare una pizza. Sto con metà capricciosa ancora nel piatto, con mia moglie in bagno e Marta in terra a giocare con un puzzle, quando Francesco Galtieri mi scrive che è appena arrivata una comunicazione di Della Vedova a tutti i membri della Direzione. Ha scritto formalmente al presidente Conte. Gli ha mandato 5 punti su cui chiede discontinuità. Lo informa che 24 ore dopo si terrà la riunione in cui +Europa deciderà se sostenere o meno il suo Governo. Quando mia moglie torna dal bagno si accorge subito che sono cupo. “Che c’è che non va?”, mi chiede. Bevo un sorso di birra, riposo il bicchiere e la guardo. “Della Vedova ha appena mandato a Conte un ultimatum via PEC”.
6.
Già so cosa ci dirà il giorno dopo. Dopo un po’, a causa dell’età, diventiamo tutti abbastanza prevedibili. È importante esserlo: aiuta gli altri a riconoscerti, a giudicarti, a farsi di te un’idea stabile nel tempo. Dirà che lo ha fatto proprio per dare a tutti noi più elementi utili per decidere il giorno dopo; per continuare l’interlocuzione aperta il giovedì precedente con l’incontro; per fare chiarezza; per essere trasparente. E ha scritto formalmente di modo che nessuno potrà speculare su quello che avrebbe magari detto o non detto veramente nel corso di una telefonata. Bellissimo.
Probabilmente anche lui sa già che cosa gli risponderò, anch’io sono prevedibile. Non si manda una PEC al Presidente del Consiglio incaricato per aprire un’interlocuzione politica; si manda una PEC se si vuole solo irrigidire tutto; se uno vuole assicurarsi che dall’altra parte nessuno risponda. Mi hanno insegnato che le PEC si usano per le comunicazioni con la PA, non per fare politica o formare un Governo. Quello che non potevo prevedere è che il giorno dopo ci dicesse che si era attenuto a ciò che gli aveva detto la segreteria del Presidente. Certo, se chiami per dire che devi mandare una lettera, dall’altra parte, nel dubbio — perché magari pure per loro è la prima volta che arriva una richiesta così — ti dicono di spedire via PEC. Il punto è non scrivere proprio. Di certo non una lettera in cui dai al Presidente incaricato meno di 24h per risponderti.
Dato che la telefonata l’avevamo fatta, andava usata per chiedere un secondo incontro, e magari facilitare, nella Direzione del pomeriggio, una discussione e decisione su cosa portare a quell’incontro. Ma capisco che sarebbe stato troppo lineare. Capisco che se per giorni e giorni passi il tempo a fare dichiarazioni a mezzo stampa su quanto i 5Stelle facciano schifo e su quanto Conte sia solo un voltagabbana opportunista, è difficile che poi ti pigli la voglia di reincontrarlo. E però la Direzione di venerdì aveva deciso altro. Mica su mia proposta; su proposta sua.
Il lunedì mattina sento Magi e Tabacci e prepariamo una lettera al Segretario, in copia tutta la Direzione, per far sapere cosa ne pensiamo del cortese invio della PEC a Conte. Della Vedova si guarda bene dal leggerla in Direzione, non la troverete quindi riascoltando gli interventi. Se l’è fatta scivolare addosso. Dicendo pressappoco “non voglio alimentare la polemica”. Capito, sì? Siamo solo dei bambini che si lagnano, non è il caso di assecondare i capricci.
Noi gli contestiamo la correttezza sostanziale e formale di come sta conducendo la crisi, di come sta venendo meno agli impegni presi dalle direzioni precedenti — tra l’altro presi con l’accordo di tutti.
Noi lo accusiamo di cose gravi. Lui derubrica tutto.
Glielo facciamo notare, Magi ed io, in apertura di riunione. Ma Della Vedova è meraviglioso: prende un’unica frase del tuo intervento e ci costruisce cinque minuti di sua assoluta indignazione. In questo caso, contesta che noi gli contestiamo di aver scritto via PEC.
Non spende una parola sul perché non abbia avvisato o informato noi parlamentari, quando la Direzione di una settimana prima aveva stabilito — e ripeto: sarebbe bastato anche il buon senso e la leale collaborazione, trattandosi di una crisi parlamentare — che la gestione della crisi sarebbe avvenuta “con il coinvolgimento degli eletti”.
Non spende una parola a spiegare come mai il venerdì sera, prima che io mi ritrovassi sulla Salaria in mezzo alle colline della Sabina, aveva detto che il lunedì avremmo poi valutato se (a) decidere, (b) rimandare ulteriormente la decisione, o magari (c) ragionare su alcune condizioni da andare a porre a Conte per vincolare a quelle il nostro sostegno al Governo. Quando invece adesso scrive a Conte che decideremo e basta.
Non commento nemmeno i cinque punti che ha messo nella PEC — dall’immigrazione, a Quota100, all’eutanasia. Perché non è una questione di merito. Ma di metodo. Di regole. Perché sul merito puoi sempre provare a trovare una quadra. Ma se víoli le regole, è finita. Il resto è tutto ipotecato.
Per tutta la mattina avevo continuato a chiedermi quando Emma fosse stata informata della lettera.
7.
Finisce 19 a 14.
I 14 sono la somma di 10 contrari e 4 astenuti. Gli astenuti sono Francesco Galtieri, Federica Sabbati e Valeria Troia della lista congressuale Contare di+, e Stefano Rolando. Almeno i primi 3 si astengono sapendo che, in base allo Statuto, le decisioni si prendono a maggioranza dei voti espressi e quindi l’astensione equivale ad un voto contrario. Si astengono per segnalare tutto il fastidio e la contrarietà alla conduzione della crisi da parte del Segretario, alle parole — che il giorno dopo sono già dimenticate — che continuiamo a mettere nelle deliberazioni che adottiamo al termine delle nostre riunioni di Direzione. Parole come “con il coinvolgimento degli”. Oppure “programmi, obiettivi e composizione del nuovo esecutivo”. Si astengono per ribadire che non erano quelle le condizioni che ci eravamo dati per decidere.
A favore votano, tra gli altri, un paio di radicali subentrati a seguito delle dimissioni in massa di tutta la prima linea dei rappresentanti della lista LSD. A favore vota anche Fabrizio Ferrandelli.
Servivano 17 voti per approvare la decisione. Ne arrivano 19.
Ci sono anche 3 membri di Direzione assenti. Io avrei volentieri rimandato la decisione. Visto lo scorno con cui si era aperta la riunione, la maniera scocciata in cui Della Vedova non aveva risposto alla nostra lettera, la mancanza di elementi certi rispetto a programma e composizione del Governo, la telefonata che il Presidente incaricato aveva provato a fare ad Emma nel primo pomeriggio ma senza che i due fossero ancora riusciti a parlarsi.
Ad un certo punto dico in direzione che a me pare che non abbiamo informazioni a sufficienza, anche perché non abbiamo interlocuzioni con nessuno. Della Vedova su questo reagisce, ma soprattutto reagisce Emma. Dice che ha cercato di interloquire fino allo sfinimento e che gli altri sono interessati solo al suo nome, e quindi — io almeno la capisco così — alla certificazione di europeismo che col suo voto in Senato può dare al nuovo Governo.
Non so onestamente di quali interlocuzioni parli. Non ci siamo mai visti con lei, il Segretario, Magi e Tabacci per valutare a tavolino quali contatti potessimo attivare e stabilire magari chi chiamava chi. “Con il coinvolgimento degli”.
Io so solo che avevo parlato con Graziano Delrio, capogruppo PD alla Camera, per sapere cosa stesse bollendo in pentola rispetto al programma della coalizione, e con diversi altri colleghi sempre del PD, dei 5stelle, di LeU e di Forza Italia, per capire come stavano maturando le posizioni dei singoli partiti. C’era scappata pure una telefonata con un deputato di Fratelli d’Italia, che mi aveva confidato che dalle sue parti erano tutti incazzati neri con Matteo Salvini, che per mesi aveva ridotto il centro-destra al silenzio e all’obbedienza con la promessa della scalata al potere repubblicano, e al quale adesso avrebbero chiesto il conto. Mica ci avevo pensato a questo effetto collaterale della crisi. Non saranno più così compatti, si indeboliranno a vicenda tra di loro.
Anche Tabacci in direzione chiede di votare. Ha le idee chiare e ritiene che ormai, dopo Benedetto e i suoi, anche Emma abbia deciso da che parte stare. Tanto vale andare alla conta e far emergere plasticamente la posizione di ciascuno. A quel punto mi risparmio di reintervenire, di dire che continuo a non avere gli elementi sufficienti per votare in un modo o nell’altro. So che non servirebbe a niente. Penso solo che non poteva finire diversamente, a giudicare da come era cominciata, da come ci eravamo arrivati, a questa Direzione. Con un ultimatum via posta elettronica certificata da parte di un Segretario che con le sue mosse — come noi tre deputati avevamo scritto poche ore prima nella nostra lettera — aveva “deciso di svuotare di valore le discussioni e deliberazioni della Direzione stessa, non [era] interessato a ricomporre una potenziale frattura profonda all’interno del partito — e tra il partito e i suoi rappresentanti alla Camera — e [stava] procurando un danno grave a +Europa, tanto nel suo funzionamento interno quanto nella sua rappresentazione politica esterna”.
Si vota. Finisce 19 a 14.
Corri corri a dirlo al Paese, che noi staremo all’opposizione.
8.
Il giorno dopo chiamo Palazzo Chigi e lascio un messaggio per il Presidente Conte: la Direzione di +Europa ha deciso di stare all’opposizione, e mentre il compagno di banco Tabacci ha già dichiarato che lo sosterrà, Magi ed io non abbiamo ancora maturato un giudizio definitivo e ci terremmo a raccogliere più elementi possibili prima del voto di fiducia.
Sono le ore più intense della trattativa per la formazione del Governo. Non mi aspetto di essere richiamato prima che sia chiusa la partita, quando la segretaria riaggancia mi dico che riproverò subito dopo il giuramento. E invece, subito dopo il giuramento, chiama lui.
Sto guidando sulla Salaria, ho appena attraversato viale Regina Margherita, quando mi squilla il cellulare. Il centralino riservato di Palazzo Chigi. Accosto, me lo passano. A malapena riesce a parlare, la voce è flebile, deve aver accumulato un enorme debito di sonno. Mi dice di aver appena sentito Emma Bonino. Sa della sua posizione contraria, ma ci teneva a richiamarla in ogni caso. Non aggiunge molto, forse si aspetta un mio commento. Ma io mi guardo bene dal farlo, o dal domandargli alcunché a riguardo. Quattro, cinque secondi di silenzio da ambo i lati. A quel punto mi chiede cosa ne pensi del Governo che ha giurato poche ore prima. Non ho intenzione di improvvisare e gli dico che non mi sono ancora fatto un’idea; che tanti nomi sono nuovi e voglio prendere più informazioni. Poi passiamo a +Europa e lo trovo molto ben informato sulla nostra situazione. Decidiamo di fissare un appuntamento, con Magi e me: siamo gli unici a non aver deciso ancora, a voler fare fino all’ultimo uno sforzo.
Lo dobbiamo a noi, prima di tutto.
Non ci sfugge il peso del nostro voto, soprattutto se alla fine non dovesse essere conforme a quanto stabilito dalla Direzione di cui sopra. Per questo mi pare utile avere — da lui direttamente — informazioni e rassicurazioni su alcuni temi che ci stanno a cuore. Conte propone di vederci il pomeriggio del giorno dopo o la mattina ancora successiva. Si farà vivo lui per proporci un orario. Riaggancio, proseguo per Rieti.
Giovedì pomeriggio siamo nel suo salottino e ci restiamo per due ore.
Dopo pochi minuti dall’inizio del colloquio ci chiede il permesso di allontanarsi per una telefonata delicata con un altro capo di Governo. Passa un’ora e un quarto, ed io ripasso a memoria le volte che sono già stato in quella stanza. Una volta con Emma Bonino Ministro degli Affari esteri, a capotavola Enrico Letta Presidente del Consiglio e noi a presentargli Destinazione Italia, il pacchetto di norme chirurgiche da inserire nel nostro ordinamento per facilitare l’attrazione di investimenti dall’estero. E soprattutto le volte con Stefania Giannini Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, a discutere con Matteo Renzi delle proposte de La Buona Scuolae di spending review. Mi torna in mente la prima versione riservata del Rapporto, di cui esistono solo cinque copie cartacee, rilegate in bella copia; mi tornano in mente gli slanci e i momenti di tensione.
Mi alzo e faccio su e giù nel salotto. Fotografo con l’iphone una bella tela al centro di una delle due pareti lunghe. Una Madonna con bambino.
Quando Conte torna riprendiamo la chiacchierata: nuova legge sull’immigrazione, decreto scuola, misure per far crescere le imprese, sviluppo sostenibile, legge sull’eutanasia appesa tra Parlamento e Corte Costituzionale. Su ogni punto ci soffermiamo. Parliamo di cosa e di quando. Ci ascolta, ci risponde su tutto, in alcuni casi siamo abbastanza soddisfatti, in altri meno. Ci aspettiamo che alcune delle questioni di cui abbiamo discusso siano poi riprese nel suo discorso alle Camere. Gli dico che proveremo a sentire anche qualche Ministro prima del voto di fiducia. Ci congediamo.
9.
La mattina dopo passo mezz’ora con Lorenzo Fioramonti a discutere principalmente del decreto salva-precari. Ha fatto un’intervista un po’ avventata il giorno del giuramento, voglio capire fino in fondo che intenzioni abbia. Mi spiega come intenda modificare il decreto che giace “salvo intese” in qualche cassetto di Palazzo Chigi. Abbiamo una conversazione di merito, molto civile. Gli propongo un paio di varianti che reputo importanti. Lui non si sbilancia, chiaramente, ma mi dice che ci ragionerà.
La mattina ancora dopo sento al telefono Luciana Lamorgese. Con il neo-ministro dell’Interno ho il ricordo di un bel rapporto. Di quando io ero capo di gabinetto al MIUR e lei faceva lo stesso mio mestiere nel Ministero che adesso guida. A quel tempo mi soccorse in più di un’occasione. Mi chiamava e mi diceva: “Alessandro, sei seduto? Devo dirti una cosa. Hai un problema”. Degli hacker si erano infilati nel sito dell’INVALSI, era possibile che avessero prelevato o comunque manomesso le prove che il MIUR avrebbe somministrato agli studenti due giorni dopo. Migliaia e migliaia di fascicoli di carta, sigillati, già distribuiti in tutta Italia. La polizia postale stava facendo le verifiche, mi avrebbe richiamato. Cose così.
Parliamo qualche minuto, le spiego brevemente in cosa consista Ero Straniero e quanto rilevante sia per noi questa proposta che alla Camera segue il collega Magi.
Più approfondisco, più interloquisco, più mi dico che non posso non votare la fiducia. A Lamorgese. Oppure a Gualtieri. Per non parlare di Gentiloni in Europa. È un Governo pieno di imperfezioni e sbavature. Pieno di contraddizioni. E però. Qual era l’alternativa? Se il bilancio su programma e ministri è misto, con alcune cose e persone molte buone e altre che arrivano come pugni nello stomaco, perché dovrei mettermi dalla parte di chi scommetterà sul fallimento di questo esecutivo? O qualcuno vuole farmi credere che se stai all’opposizione poi speri che il Governo duri? Quel Governo che non hai votato e a cui ti opponi. Eh no. Non lo speri. Speri che faccia male, perché è dai suoi passi falsi che tu speri di poter trarre un beneficio. Perché se invece speri che faccia bene, allora tanto vale provare a dargli una mano.
Ho ancora il fine settimana per continuare con questo lavoro certosino. In tutto questo, Della Vedova mi chiama più volte. Stessa cosa fa con Magi. Ci dice la sua, vuole sapere se abbiamo deciso. Vuole saperlo per avere il tempo di “preparare la comunicazione”. Mica l’ho capita lì per lì, quale comunicazione. È stato meglio così. Mi sono limitato a rispondergli che non era una decisione facile. E che no, non avevo deciso ancora. Ho fatto decine di telefonate, in Italia e a Bruxelles, con ex colleghi, con coloro coi quali due anni fa ho deciso di buttarmi a capofitto in politica, con capi di alleanze e organizzazioni della società civile, con sindaci e imprenditori. Ho ascoltato, prima di dire la mia. La bolla esiste, bisogna ammetterlo. Perché mi dicevano tutti la stessa cosa. Ma ho apprezzato che quasi nessuno me la dicesse da opinionista, da commentatore da bar. Me la dicevano tutti immedesimandosi. Perché abbiamo tutti una convinzione. Su qualcosa come un nuovo Governo ci facciamo tutti un’idea in pochi minuti, magari in una manciata di secondi. E però ci ho messo giorni, perché questa volta non mi avrebbero chiesto di fare un commento. Ma di passare sotto al banco della Presidenza della Camera e di dire “sì” oppure “no”, per sommare poi quel sì o quel no con quello degli altri e vedere se alla fine il Paese continuava con Gentiloni, Lamorgese, Gualtieri e pure gli altri che mi piacevano di meno.
Se provava a farlo questo sforzo complicato.
Oppure se si semplificava tutto. Se davamo le chiavi a Salvini.
10.
Non mi stupisce che siamo arrivati a questo punto. È dal Congresso che il partito procede con prove di forza, a colpi di maggioranza.
Siamo stati capaci di scacciare tutti.
Prima di tutto abbiamo fatto scappare un bel po’ di nativi che avevamo appassionato alla causa. Se ne sono andati e dentro +Europa in tanti ancora non se ne sono accorti. Perché questi nativi non stanno a intasare i social, avendo anche qualche altra preoccupazione e incombenza da sbrigare nel corso della giornata.
Poi abbiamo allontanato i radicali. C’è rimasta qualche eccezione, per carità. Ma il blocco radicale non c’è più. Tecnicamente non li abbiamo allontanati noi, se ne sono andati loro. Ma certe favole te le puoi raccontare una volta, forse due, i più ostinati riescono al massimo ad arrivare a tre.
La gestione di questi mesi da parte di Benedetto della Vedova e di Bruno Tabacci, che si sono amati e odiati a seconda dei momenti, che hanno fatto il bello e il cattivo tempo, convergendo e divergendo, alleandosi e dissociandosi, ha portato +Europa dove siamo oggi.
Il resto lo hanno fatto gli errori degli altri, compresi i miei.
Il resto lo ha fatto Emma Bonino, dal giorno in cui ha smesso di garantire tutti. Dal giorno in cui si è convinta che stava sotto assedio, e che eravamo tutti uguali.
11.
Nel 2006 mi ritrovai a lavorare con Emma Bonino. Non avevo tessere di partito e non l’avevo mai incontrata prima. Arrivarono a me perché cercavano un ghost-writer che potesse aiutarla a seguire i due dicasteri che le avevano assegnato: il commercio estero e gli affari europei.
Ricordo il primo giorno di lavoro. I suoi due capi di gabinetto mi chiesero di scrivere liberamente un po’ di appunti sull’Unione europea.
Immaginate di stare nel 2006. È ancora vivo il ricordo della Costituzione europea e della sua bocciatura. Io sono fresco dei miei studi e delle mie ricerche al Collegio d’Europa di Bruges e all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Scrivo veloce.
Mi metto al computer e butto già una dozzina di cartelle. Dopo un paio d’ore le invio via mail. C’è un lungo passaggio sulla politica estera europea. Sulle divisioni. Sulla mancanza di una voce unica dell’Europa nel mondo. Scrivendolo mi era tornata in mente una bella pagina di Bertrand De Jouvenel che avevo letto anni prima all’università, mentre preparavo un esame di storia delle dottrine politiche.
Se sei una tribù — aveva scritto De Jouvenel — e ti sta venendo contro una tribù nemica, di cui tu non conosci le intenzioni (o comunque le cui intenzioni non conosci a sufficienza), be’, allora ci sono due cose che puoi fare: imbracciare i machete, e andare incontro all’altra tribù. Oppure imbracciare delle ceste di frutta, e andare incontro all’altra tribù. Non sai prima, necessariamente, quale sia la scelta giusta da fare. Entrambe potrebbero rivelarsi azzeccate. Ma c’è certamente una cosa che non puoi in alcun modo permetterti: che metà della tua tribù imbracci i machete, e l’altra metà le ceste di frutta.
Uno dei due capi gabinetto mi rispose dopo meno di un’ora. Aveva letto tutto. Mi scrisse solo: “Non male. E bellissima la storia di De Jouvenel”. Qualche giorno dopo Emma la usò in uno dei suoi discorsi sull’Europa.
È una storia che non posso dimenticare.
POST-SCRIPTUM
Ho scritto queste pagine nelle ore successive al voto di fiducia.
Da allora, ho riaperto molte volte il file. Ho riletto e aggiunto poco o niente. E alla fine ho considerato che fosse giusto pubblicarle così, nella loro forma pressoché originale, più autentica e immediata.
In questo mese trascorso dal voto di fiducia siamo rimasti sospesi nel limbo, e a me è diventato chiaro come non ci fosse più nulla da fare; più nulla da tentare. In questo mese ogni tanto ho aperto facebook, letto l’ultima dichiarazione di qualche esponente del Governo, la contro-dichiarazione di +Europa: del Segretario, di un vice-Segretario, di qualcun altro nei dintorni. In questi venti giorni non mi ha sconfortato l’uscita di Matteo Renzi dal PD, che inevitabilmente ha fatto precipitare +Europa nei sondaggi. Mi ha sconfortato vedere che chi guida il partito non ha imparato granché da quello che è successo.
Si è convinto che anche stavolta gli basterà tirare dritto.
Ma è a me che stavolta non basta più.
***
Non ci siamo cercati molto con Della Vedova in queste settimane. Un paio di telefonate, direi. Ricordo bene la prima dopo il voto di fiducia. È il 16 settembre. Sono all’Aquila, all’inaugurazione dell’anno scolastico con il Presidente della Repubblica. Non posso rispondere. Dopo mezz’ora il cellulare squilla di nuovo, così gli chiedo via whatsapp se sia urgente. Mi risponde di chiamarlo quando posso e se voglio. Ma non resiste. Poco dopo mi scrive nuovamente. Gli hanno parlato dell’ingresso degli eletti di +Europa nei nuovi gruppi di Renzi. Un punto esclamativo tra due parentesi tonde. Mi chiede conferma e se può comunicarlo.
Sono seduto in seconda fila, tra il Sindaco dell’Aquila e una collega della Camera, alle spalle di una sedia vuota. Stacco gli occhi dal cellulare e guarda il palco. C’è un bel sole caldo che mi scalda la faccia. Posso pensare solo a quanta fretta abbia di togliersi un pensiero. Un’incombenza.
Quando finisce la cerimonia ci alziamo in piedi, ma resto per qualche minuto al mio posto, ad osservare la folla defluire. Si alza il Capo dello Stato, è a qualche metro da me, viene circondato da studenti e insegnanti, da autorità varie, dalle guardie del corpo. Poco dopo si muove per raggiungere la macchina. Riesce a camminare lentamente, vogliono tutti stare intorno a lui, vogliono tutti muoversi con lui. Saluta stringendo qualche mano, in silenzio. Senza fretta ma senza neppure intenzione di rallentare ulteriormente.
Quando arriva all’altezza della sedia vuota gli dico “buonasera, Presidente”. Si gira, mi guarda, mi sorride e allunga un braccio sopra la sedia, nella mia direzione.
“Come va?”, mi dice.
“Bene, Presidente”, rispondo.
Non mi lascia la mano subito. Non guarda da un’altra parte. Per due, forse tre secondi, impercettibilmente, si ferma. Adesso che si è velocemente consumato il rito, mi sta concedendo una seconda parola.
“Avrà visto…”, aggiungo.
Sergio Mattarella ha gli occhi di vetro. Trasparenti. Ci puoi leggere dentro.
“Ho visto”, mi risponde. “Buon lavoro”.
Non deve aggiungere altro.
***