Congo

Alessandro Fusacchia
6 min readFeb 23, 2021

In memoria di Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci, Mustapha Milambo.

Cinque lettere. Comincia con la C. Tutti sanno che si trova in Africa, per molti è letteralmente sinonimo di Africa, anche se pochissimi di fronte ad una cartina saprebbero localizzarlo con precisione. Eppure ci si potrebbe azzeccare andando anche quasi a caso. Più di due milioni e trecentomila chilometri quadrati, una superficie pari a tre volte e mezzo la Francia. Nel film The Lost Dinosaurs (2012) di Sid Bennett è in Congo che vivono ancora gli ultimi dinosauri sopravvissuti al meteorite, alla fine della glaciazione, ad ogni teoria sulla loro scomparsa.

Ci sono stato nel 2016. Lavoravo al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e avevo negoziato con la mia capa questa settimana off. Lontano da tutto, al limite della rintracciabilità, una concessione dopo due anni senza tregua. Partimmo da Roma e da Bruxelles, facemmo scalo a Addis in Etiopia, e alla fine arrivammo lì. Pawel, Peppe ed io, a casa di Simone che da mesi ci stava in pianta stabile, al servizio delle Nazioni Unite. Quattro amici dell’università che si ritrovavano senza essersi mai persi.

Oggi, 22 febbraio, all’ora di pranzo Simone ci ha scritto: «comunque l’Ambasciatore era sulla stessa strada che abbiamo fatto noi…». Mi ricordo ogni ora di quella settimana. Ogni strada, ogni curva. Abbiamo asceso il vulcano Nyiragongo, uno dei più attivi e pericolosi al mondo, nel parco nazionale Virunga, ad una ventina di chilometri a nord di Goma e del lago Kivu. “Qui ogni tanto qualche problema c’è…”, è sempre Simone, non oggi ma cinque anni fa. Non parlava del vulcano, “…non sempre si gestiscono”.

Siamo di nuovo a bordo della jeep, appena ridiscesi dopo 24 ore sulla bocca del vulcano. Si ascende e si dorme in vetta, a pochi metri dal crostone a picco sul buco dove ribolle il lago di lava, la mattina dopo si torna giù. Faticosissima l’ascesa, ma quasi più difficile la discesa, con le ginocchia continuamente sollecitate, gli stessi scarponi pesanti.

E poi, un paio di giorni dopo, la lunga marcia alla scoperta dei gorilla. Ore di cammino per arrivare sul limitare della giungla. Attraverso campi e terreni coltivati. Con le guardie che fanno strada e basta, senza parlare. Il Congo che è silenzio. Il Congo dove i rumori ci sono ma sempre un po’ in lontananza, sempre ad una distanza che li attutisce fino a farli tollerabili.

Chi ci precede a piedi ci dice di non farci troppe aspettative. Potremmo metterci ore per trovarli. Potremmo non avvistarli proprio. E invece finiscono i campi, inizia la giungla, e dopo nemmeno un quarto d’ora eccola qua: una piccola colonia di gorilla. I piccoli. Le mamme. Il silverback. Come nei film, si alza sulle zampe posteriori e si batte il petto alla king kong. Enorme. Possente. Restiamo immobili. La guardia ci dice di restare immobili, ma garantisco che non avremmo fatto altrimenti anche in mancanza di un’indicazione. Ci passiamo la mattinata e mi accorgo solo in quel momento che mi serviva arrivare al centro del mondo per sentirmi davvero al di fuori di me. Dei miei giorni, del mio ruolo, di ogni mia prospettiva. Fino a qualche mese fa, era stata quella la prima e l’ultima volta in cui avevo indossato una mascherina. Pure malamente: ho il naso scoperto in almeno metà delle foto.

Quando riabbandoniamo la giungla neppure noi parliamo più. Sazi. Anche se sazi non dice tutto. Ecco come siamo: colmi. Con Peppe ci è passata perfino la voglia di stare a rimuginare sull’ultima partita a scacchi. Ci siamo portati la scacchiera ovunque, anche in cima al vulcano. Riattraversiamo i campi, recuperiamo la jeep e i cellulari, partiamo. Sono ore che eravamo disconnessi. Non lascio mai il cellulare, in quel periodo ancora meno. Non sono un chirurgo o un pompiere. Ma diciamo che in quel periodo pure per me era complicato sparire per ore. In quei giorni, anche in Congo avevo sempre avuto il cellulare dietro. Ma quella mattina mi ero detto: stamattina no. Stamattina te la godi. Vediamo cosa ti succede se quando ti infili la mano nella tasca non trovi niente. Se ammattisci, o finalmente provi un sentimento nuovo.

Risalgo sulla jeep e sono orgoglioso. Sei, sette ore senza cellulare. Togliamo la modalità aerea e impazziscono tutti insieme. Messaggi su messaggi su messaggi. Il primo che leggo è di Marcella. La mia vice capo di gabinetto al Ministero. Ha compiuto quarant’anni oggi, poi dici le piccole insignificanti coincidenze. Il messaggio dice: “tutto bene tua sorella?”. Mica capisco subito, e del resto, come potrei? Esito a rispondere, so che devo prima capire la domanda. Non ci metto tanto, anche Pawel è stato nel frattempo sommerso di messaggi. Ogni mattina a Bruxelles prende la metro per andare al lavoro, scende alla fermata di Maalbeck. Quella mattina, a quella fermata, c’è stata una strage. È il 22 marzo 2016. Assaltano la metro e l’aeroporto. Finirà con 32 morti e oltre trecento feriti. Si scoprirà che il covo dove avevano custodito gli esplosivi e le armi è a Schaarbeek, a poche centinaia di metri dalla casa che con mia moglie abbiamo comprato e ristrutturato cinque anni prima, poche settimane prima che io rientrassi in Italia — «ma tanto sarà solo per qualche mese».

Il Congo mi si è impresso sulla retina. Non mi servono neppure le fotografie. Ho immagini vive. Ricordo le conversazioni serali attorno al fuoco, con la carne alla brace e le birre, fatte con Simone, Pawel, e Peppe. Mi ricordo quei gorilla. Quelle partite a scacchi. Quella bocca di vulcano. Risento anche adesso la fatica che abbiamo fatto per arrivare in cima. Rivedo la vastità. La maniera in cui ci si poteva facilmente perdere; in cui si poteva facilmente sparire. In cui tutto era così vasto da trasformare noi e tutti gli altri in esseri minuscoli, che contavano poco, che non contavano nulla a meno di assicurarsi ogni giorno qualche ora di fatica e qualche altra di contemplazione.

Ho lavorato alla Farnesina ma non ho mai conosciuto Luca Attanasio. Non so nulla di lui, se non quello che come tutti sto leggendo in queste ore. Ma so che da qualche parte ha posato lo sguardo dove cinque anni fa l’ho posato io. So che abbiamo percorso qualche stessa strada senza nome. So che il Congo ci avrà suscitato più di un pensiero identico. Eravamo coetanei, pressappoco. A giudicare da quello che è stato, avremmo facilmente potuto avere le vite scambiate. Invertite.

E così stasera me ne sto in silenzio. A rivedere queste foto, e poi il cielo di stelle, pensando a quello meno opaco che sovrasta la vegetazione del Congo e tutti i dinosauri che non abbiamo ancora scoperto.

Me ne sto così, a risentire il calore che risale dalle viscere. Dalla Terra, da dentro.

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Alessandro Fusacchia

Vice Presidente per l'Impatto Sociale di Translated. Curatore del Festival del Pensiero Contemporaneo (Piacenza) e della Pratolungo Unconference (Rieti).